IL SENSO DEI FENOMENI E I LIMITI DELLA SCIENZA NORMALE – RIFLESSIONI SULLA MEDICINA

Le considerazioni che seguono sono formulate da un professore di Chimica Generale, che, stante l’ area culturale specifica alla quale è rivolto questo giornale, è da ritenersi nella migliore delle ipotesi un “inesperto qualificato”. Pertanto lo scrivente è lungi dall’ adombrarsi se il lettore riterrà limitati, incompleti o addirittura non condivisibili alcuni dei punti di vista espressi in questo articolo, giacchè mai come in questo caso vale il pensiero di Wittgenstein “ciò che è detto, è detto sempre da un osservatore”. Tuttavia tengo a sottolineare che essi nascono e riflettono quello che da alcuni anni scrivo a commento delle mie pubblicazioni scientifiche in un settore che, al pari della medicina, ritengo debba essere culturalmente ridefinito.
L’ occasione di riflessione nasce dall’ invito a portare un contributo nell’ ambito di un convegno (La complessità in medicina) che la Società Italiana di Omeopatia e Medicina Integrata ha organizzato a Firenze. La Società ha come scopo statutario prioritario l’ inserimento nella normale pratica medica di una tecnica terapeutica fondata su un modello concettualmente differente da quello adottato ufficialmente dalla cultura occidentale. A mio parere la grande differenza fra i due paradigmi sui quali si basano i due modelli potrebbe essere ridotta essenzialmente all’ esistenza di un sentimento di fiducia o meno, che si ha nei confronti della capacità di un organismo malato di dare origine al processo di autoguarigione. Se tale sentimento di fiducia esiste, l’ intervento medico può consistere nell’ indurre una sottile interferenza atta a favorire cotale processo. Se viceversa si ritiene che esso sia insufficiente, il modello terapeutico che ne consegue parte dal presupposto che il processo in discussione possa o debba essere ignorato.
Se ai miei occhi in linea di principio tale differenziazione non prefigura sentimenti di smarrimento o aberrazione, di fatto le due tecniche terapeutiche si basano su filosofie profondamente differenti e questo fa sì che, quando esse siano formulate con tonto fanatismo, si cada sovente in una farsa grottesca di contrapposizione scienza verso non-scienza. E poiché quelli che fondano la loro medicina su una pretesa metodologia galileiana, quale quella che presuppone il sentimento di sfiducia nel sopracitato processo di autoguarigione, sono molti di più e sono supportati dall’ autoassertivismo del potere accademico, la situazione sconfina nella contrapposizione grid-group (ovvero gerarchia politico-culturale avverso setta) con argomenti di lazzo, dileggio, scherno fino alla contumelia nei confronti della parte soccombente. Dal mio punto di vista tale comportamento è pienamente comprensibile perché i proseliti della minoranza sembrano emozionalmente insensibili, dal momento che hanno evitato ed evitano di formulare qualsiasi proposizione con sembianza culturalmente degna. Il problema sta nel fatto che da una parte, se dovessero fare un esame con me, non ho dubbi che in trenta secondi i suddetti proseliti si sarebbero levati il pensiero, e dall’ altra, se fossi malato, non esiterei a farmi chilometri in ginocchioni per farmi visitare da alcuni di loro che ho avuto la fortuna di conoscere, e che, vittima della mia presunzione, ritengo medici di classe superiore. La spiegazione del tutto sta nel fatto che, almeno da un punto di vista scientifico stretto, entrambe le tecniche sono lungi dall’ avere una autoreferenza scientifica, ancorchè supportate da uno schema interpretativo autoconsistente della fenomenologia. 
La nostra cultura deve adoperarsi, parafrasando Lester Brown,1 per creare una medicina che soddisfi le sue necessità attuali nel più profondo rispetto dei diritti delle generazioni future. Ma poiché la cultura è potere, si deve concludere che in questo momento il potere fra le due fazioni è distribuito in maniera sostanzialmente asimmetrico. Da cui ricordando che il potere in tutte le sue forme si arroga i diritti di tracciare il confine fra l’ ammissibile e il non ammissibile, di determinare lo sviluppo culturale della società e di esercitare all’ occorrenza la coercizione, ritengo che il quadro non sia particolarmente incoraggiante per lo sviluppo della medicina non convenzionale. A meno di non ridefinire culturalmente l’ oggetto stesso della medicina in un processo di sviluppo concettuale che renda puramente nominalistici gli aggettivi convenzionale, non convenzionale, complementare e integrato, che si reggono sul presupposto della “scienza normale” adottata dalla nostra civiltà occidentale. 
La storia mostra che un certo insieme di fenomeni è sempre stato analizzato in maniera diversa a seconda della cultura e delle concezioni della natura. Stante la correttezza e l’ ammissibilità delle osservazioni, i quadri concettuali risultanti sono stati diversi, pur mantenendo tutti in generale la caratteristica di compatibilità con l’ insieme dei fenomeni osservati. Questo è la base dell’ esistenza di scuole di pensiero diverse nel campo della medicina, a seconda dell’ area geografica. Tuttavia si è spesso verificato che qualora nella stessa società si avessero più scuole di pensiero, una di esse sia diventata dominante per motivi non necessariamente di validità, quanto piuttosto di urgenza o di impostazione culturale dominante. Con il tempo tale scuola è diventata ufficiale, mentre le tesi delle altre sono state relegate al ruolo di credenze. 
La scuola di pensiero dominante una volta affermatasi fa codificare i propri assunti nei manuali, che vengono a costituire il riferimento degli studenti e dei professionisti.2 In essi vengono espressi i principi della scuola supportati dagli esempi che più si convengono alla dimostrazione assertiva della teoria. Per amore di chiarezza non vengono menzionati quelli che non si attagliano alla teoria stessa. Pertanto nell’ esercizio professionale tali manuali vengono a costituire l’ unica base della verità rivelata nel settore culturale specifico, inducendo pertanto a tacciare di eresia tutte le eventuali ipotesi che non si confanno a tale verità. Da un punto di vista scientifico tale situazione ha un effetto condizionante in quanto tutte le “libere ricerche” vengono indirizzate ad affinare il quadro concettuale dominante. In questo caso infatti la teoria determina l’ osservazione e non, come sarebbe auspicabile, il viceversa, e induce a sottovalutare e non considerare le eventuali contraddizioni o i fenomeni che se discostano. Quando questo si verifica, si parla di “scienza normale”. 
Il concetto di scienza come fu formulato da Galileo, Cartesio e Newton presuppone il concetto di idea assoluta come dettato dalla tradizione cristiana e pertanto si riferisce esclusivamente alla definizione di fenomeni che possono essere misurati e quantificati. Esso pertanto presuppone la coordinazione di dati sperimentali e la loro analisi attraverso un sistema logico. La conseguenza è che i fenomeni osservati devono essere caratterizzati da regolarità e che quindi l’ universo può essere descritto matematicamente. C’ è da sottolineare pertanto che il concetto di scienza così formulato non considera in linea di principio gli aspetti qualitativi di un fenomeno. Questo va ricordato a tutti coloro che nell’ ambito della scienza medica sono soliti parlare di metodi galileiani. Infine va sottolineato che, affinchè si addivenga alla caratterizzazione dell’ essenza delle entità del mondo che ci circonda, l’ interpretazione del fenomeno deve essere oggettiva, fatto questo che presuppone una serie di assunzioni a priori per stabilire i criteri di oggettività. Questa ultima proposizione può sembrare ovvia, ma, come sarà discusso in seguito, è lungi dall’ esserlo. 
L’ uomo ha imparato a coltivare la terra, tessere, fondere i metalli e costruire case e palazzi facendo a meno del metodo scientifico. In breve ha imparato che un bicchiere casca per terra e si rompe senza sapere la legge di gravità. Il suo cervello è primariamente impostato all’ apprendimento dei fenomeni dalla sopravvivenza e dall’ utilitarismo. Questo ha portato allo sviluppo della tecnologia e delle arti intese come specializzazione. Da questo punto di vista quindi la medicina si è sviluppata nei secoli come arte maggiore, prescindendo dalla conoscenza dettagliata della natura microscopica del nostro organismo e dei processi biochimici che ne determinano il funzionamento. Il medico si è formato e ha operato sulla base dei risultati di esperienze ottenuti dalle generazioni precedenti (leggi: tecniche terapeutiche) integrandoli con le esperienze dirette della sua professione quotidiana. Questa prassi prescinde dalla ricerca dell’ essenza dei fenomeni, che è l’ oggetto amorale della ricerca scientifica, mentre invece è determinato da un aspetto etico, che prescinde dalla scienza, in quanto alla base c’ è quel meraviglioso sentimento che porta l’ uomo a sollevare dalla pena il proprio simile sofferente. Non v’ è dubbio che da questo punto di vista la farmacologia sia una scienza mentre non lo è più quando diventa espressione della clinica. E in nome della loro arte maggiore, scusandomi per la banalità dell’ asserto, i medici tradizionali, forse per motivi di insicurezza, quando mi prescrivono una pasticca di aspirina, sono felici di darmi un milione di molecole di farmaco per ogni cellula del mio organismo; per contro gli omeopati, più prudenti, si compiacciono con se stessi facendomi assumere una molecola di principio attivo ogni miliardo delle stesse cellule (quando va bene, dal momento che, secondo loro, meno me ne danno più effetto mi fa). 
La medicina moderna nacque nella metà dell’ ottocento e si è soliti indicare in Claude Bernard il più autorevole padre fondatore. Negli scritti di Bernard si definisce chiaramente il concetto di equilibrio interno dell’ organismo e della sua tendenza a mantenere costanti dei parametri critici qualora sollecitato da perturbazioni esterne (cioè l’ omeostasi di Cannon), indicando quindi nella malattia una alterazione di tale equilibrio. 3 Tuttavia la medicina dimenticò presto questo dettato fondamentale e si sviluppò seguendo le scoperte di Pasteur, che sostenne che la malattia era dovuta a un fattore singolo. Questa semplificazione del problema ebbe fondamentalmente successo perché permetteva di seguire i canoni del pensiero scientifico di Descartes. La funzionalità dell’ organismo venne ad essere linearmente demandata alla funzionalità dei suoi singoli diversi organi componenti. In questo quadro la malattia è dovuta al cattivo funzionamento di un componente e pertanto l’ intervento terapeutico è concettualmente limitato all’ intervento sul singolo organo. Da allora lo sviluppo della medicina è strettamente connesso allo sviluppo della biologia, esaltando i successi di questa fino a prefigurare come risolutivo l’ intervento dell’ ingeneria genetica. E’ innegabile che tale filosofia basata sull’ approccio biologico molecolare abbia permesso di addivenire a notevoli successi come per esempio la cura del cancro. Ormai è da ritenersi che i biologi ci abbiano fornito una conoscenza pressochè completa della struttura microscopica dell’ organismo vivente e non v’ è dubbio che ci sia da aspettarsi una ulteriore serie di successi in un prossimo futuro dall’ utilizzo delle interazioni farmaco-recettore. Il punto che deve far invece riflettere sta nello sviluppo applicativo della conoscenza biologica. C’ è infatti da osservare che il metodo perseguito è basato sull’ indurre una perturbazione (leggi: terapia) spesso violenta su un sistema fuori equilibrio quale si può definire un organismo malato. Il problema primo quindi è la determinazione della misura e della durata della perturbazione in quanto è ovvio che nella stragrande maggioranza dei casi una perturbazione violenta, e quindi difficile da controllare, implica il passaggio da uno stato di non equilibrio a un altro stato di non equilibrio. Questo è esattamente l’ opposto del meccanismo di retroazione negativa che è alla base della vita. Parlando più in generale tale approccio sistematico appare innaturale nel senso che prevede un atteggiamento aggressivo (il senso della natura è quello della cooperazione, raramente quello dell’ aggressione se non per sopravvivenza). Di fatto la medicina tradizionale fallisce tutte le volte che è chiamata a intervenire su fenomeni cooperativi: l’ embriogenesi, l’ autoguarigione, la funzione cognitiva. 
Il metodo terapeutico fondato sull’ omeopatia può per contro essere considerato puramente basato sulla fenomenologia. Il pensiero del padre fondatore Hahnemann è basato su una visione vitalista dell’ organismo umano perseguendo il pensiero romantico del suo tempo che vedeva la natura come uno schema di relazioni. Nella visione hahnemanniana la malattia è dovuta alla variazione della cosiddetta energia vitale che caratterizza differentemente ogni individuo e pertanto l’ intervento terapeutico è determinato a annullare tale mutamento. Tale concezione è molto simile, mutatis mutandis, a quella della medicina cinese e a tutte le tecniche che prevedono una variazione di flusso bioenergetico. 
La tecnica terapeutica di Hahnemann prevede alcuni aspetti oggi scientificamente inaccettabili, talchè personalmente, pur ammirando l’ opera di questo grand’ uomo, giustifico la disapprovazione della attuale medicina tradizionale. Ritengo altresì che se avesse letto con attenzione quanto scriveva il contemporaneo Kant, le sue proposizioni avrebbero potuto essere formulate in una maniera significativamente più acuta. Tengo tuttavia a sottolineare che, come discuterò in seguito, molti principi utilizzati su base di fenomenologia terapeutica si adattano alla visione che si sta proponendo nei tempi moderni e rafforzano la mia critica di base nei confronti degli omeopati moderni, che si sono appiattiti su una teoria formulata quando a l’ Academie des Sciences si discuteva in quale anfratto del corpo umano si trovasse l’ anima o la coscienza. E la prima conseguenza dello stato di appiattimento è quella di avere un orizzonte limitato, ancorchè la concezione di terapia individuale a seconda della biodiversità costituisca per contro una visione sotto molti aspetti nettamente più avanzata da un punto di vista moderno di quella della medicina tradizionale. 
Il punto chiave del pensiero scientifico occidentale da quattro secoli a questa parte è stato di scoprire cosa c’ era di comune in un insieme di elementi simili o quello che c’ era di immutabile nel corso dell’ evoluzione temporale di una serie di eventi, il tutto alla ricerca della legge divina. La ricerca della legge universale porta quindi a una visione semplificata perseguendo una ricerca di certezza nell’ ambito di un rapporto diretto causa – effetto, giustificando quindi un approccio riduzionistico e un metodo basato sull’ analisi piuttosto che sulla sintesi. Per questo motivo la trascrizione matematica di una legge scientifica avviene in generale attraverso un’ equazione lineare. Non c’ è dubbio che questo metodo valga in molti campi tanto è vero che è sopravvissuto per molti secoli e i successi che si sono ottenuti utilizzando questo procedimento hanno avuto un effetto incredibile nella storia dell’ uomo. Tuttavia i monumenti che gli scienziati hanno eretto a questa visione non devono far dimenticare che tale paradigma è ben lontano da rendere conto della coordinazione esistente fra i fenomeni che osserviamo quotidianamente e nel caso della medicina quelli che si verificano in un organismo, definito da processi chimici e fisici da ritenersi termodinamicamente altamente improbabili. 
Se quindi la scacchiera della natura permette il movimento di più pezzi insieme e il loro cambiamento di valore dopo ogni mossa, il metodo analitico può mostrare i suoi limiti. Il processo alternativo è quello di privilegiare le correlazioni fra i fenomeni naturali, cercando di costruire una visione organica. Questo approccio organicistico, che con diverse sfumature caratterizza il pensiero orientale in toto e il pensiero occidentale partendo da Pitagora fino a Whitehead sottolinea il carattere di rete di relazioni che caratterizza il mondo nel quale viviamo. Talchè se, a differenza di quanto sostenuto da Descartes, un aggregato di entità interagenti possiede proprietà diverse e in generale superiori a quelle definite dalla somma delle proprietà delle singole entità e se le entità stesse sono interconnesse dinamicamente, il sistema non può essere descritto da equazioni lineari, come avviene nella scienza classica. Questo nell’ era dei computer ha portato allo sviluppo del concetto di retroazione e della teoria del caos (Prigogine),4 che è alla base della scienza delle complessità. 
Questa concezione della natura comporta una ridefinizione del mondo vivente e più in particolare, per quello che riguarda noi uomini, delle sue conseguenze nell’ interpretazione del senso della fenomenologia come espressione del sistema cognitivo (Bateson, Maturana),5,6 del senso del pensiero concettuale, della coscienza e dell’ espressione culturale dell’ uomo. L’ aspetto fondamentale è quello di ridisegnare, se non rimuovere, il concetto di base cartesiano sul quale si è sviluppato il pensiero scientifico moderno. Mi limiterò qui a discutere alcuni aspetti che io ritengo essenziali per lo sviluppo del pensiero medico. 
Presupposto fondamentale per lo sviluppo della medicina è la definizione del sistema vivente. Nell’ ambito della Scienza delle Complessità (v. Schrödinger, Prigogine, Maturana e Varela)7-11 esso è definibile come un sistema dissipativo che si autogenera e che è definito da uno schema di organizzazione, inteso come configurazione tra componenti, e da una struttura, definibile come rappresentazione dei componenti (cioè gli organi, i tessuti, le cellule, ecc) che possono essere intesi come l’ espressione materiale del suo schema di organizzazione. E’ importante sottolineare che la struttura viene ad essere determinata dallo schema di organizzazione. Sotto questa luce il limite della scienza tradizionale e della medicina in particolare è stato quello di occuparsi quasi esclusivamente dei componenti, trascurando l’ importanza essenziale dello schema di organizzazione. 
Il processo della vita prevede un continua variazione strutturale del sistema, fermo restando il fatto che esso ha sempre se stesso come referente in quanto la logica della sua configurazione è quella di conservare la propria identità. Tali variazioni pertanto sono sempre cooperative nel senso che non riguardano mai il singolo componente, ma sempre il loro insieme. Il punto chiave sta nel fatto che le interazioni con l’ ambiente implicano variazioni strutturali del sistema come risposta del sistema cognitivo (inteso come somma del sistema nervoso, endocrino e immunitario). Poiché tali variazioni strutturali sono diverse a seconda delle interazioni avute in precedenza, la risposta dell’ organismo è individuale. L’ autonomia dell’ atto cognitivo viene altresì rafforzata dal fatto che non tutte le perturbazioni dell’ ambiente sono efficaci, ma solo quelle selezionate dall’ organismo. In questo senso il processo della vita è un processo di apprendimento continuo che viene determinato dalla risposta individuale del sistema stesso. Pertanto ognuno genera il proprio mondo, indipendentemente dal mondo esterno. 
Questa visione di un sistema cognitivo organizzato è per esempio la chiave del sistema immunitario, la cui formulazione basata sul modello della selezione clonale di McFarlane Burnet e sviluppato da Jerne12 in uno schema a rete è chiaramente limitata. La teoria offre una spiegazione razionale dell’ infezione, ma non certo la tolleranza, la memoria e l’ evoluzione del sistema stesso. Questi fenomeni presuppongono il concepimento del sistema immunitario come un sistema a rete che si riarrangia in maniera cooperativa come conseguenza di uno stimolo esterno. In altre parole bisogna ammettere che l’ interazione singola determinata dallo stimolo esterno implichi una estensione all’ intorno come effetto di ordine superiore, come se le diverse cellule comunicassero e raggiungessero una nuova configurazione di autoorganizzazione sia in seguito a una piccola che a una grande perturbazione. La complessità del sistema non permette una completa simulazione, ma studi effettuati su modelli con numero di parametri limitato giustificano questo punto di vista.13-15 E’ interessante notare che in questo modello, che giustifica l’ aggressività e la tolleranza nello stesso tempo a seconda dell’ intensità dello stimolo, si ritrovino i due metodi terapeutici visti all’ inizio, caratterizzati rispettivamente da aggressività e sottile interferenza. 
Questa visione quindi in senso più generale implica che l’ organismo non raccoglie informazioni dall’ esterno, ma le genera in maniera personalizzata sotto l’ azione degli stimoli esterni. Nel generare il proprio mondo attraverso il suo processo cognitivo e per interazione con organismi simili che hanno mondi simili si può addivenire a una coordinazione dei mondi come espressione di un processo collettivo. Da questo ha origine il linguaggio e la cultura. E’ questo il senso dei fenomeni e il limite del nostro pensiero concettuale. La scienza umana non definisce le caratteristiche di un mondo indipendente, ma di quello definito dalla biologia dell’ osservatore. In altre parole ha significato solo per definire un insieme di spiegazioni accettabili di una realtà estremamente particolare e non oggettiva in quanto è quella definita dalle esperienze di vita dell’ osservatore. 
L’ insieme di queste considerazioni fornisce i punti di partenza per lo sviluppo futuro della medicina. Il primo punto è che l’ attenzione del medico deve privilegiare non specificatamente il singolo componente dell’ organismo quanto piuttosto il componente definito dal suo schema di relazione. Questo ci riporta allo sviluppo del pensiero di Bernard, sottolineando il carattere determinante di quei processi che la cibernetica ha definito processi di retroazione, nonché il carattere di sistema dinamico in non equilibrio proprio dell’ organismo vivente. Il secondo punto è che, come conseguenza del carattere biologico della conoscenza, il concetto di universalità o verità assoluta è trascendente all’ esistenza umana. Tale valore infatti prevede delle ammissioni a priori che prescindono dai processi naturali di cognizione. 
La conseguenza che è importante far propria è il fatto che posso dire che la maggiore comprensione della natura fa addivenire alla conclusione che la medicina è impotente a controllare un organismo nella sua totalità. Ancorchè sia vero che tutti i meccanismi che caratterizzano i sistemi viventi siano riconducibili a una successione di processi chimici, il software che descrive la loro interconnessione e la loro contemporaneità è troppo complicato e la scienza si deve limitare solo alla formulazione di algoritmi, ovvero sequenze di regole semplici. Questo tuttavia non deve mortificare il sentimento di sfida che l’ uomo ha nei confronti del mondo. Deve solo aiutarlo a prendere coscienza dei propri limiti e quando è necessario adottare l’ approccio più adatto. Che nell’ ambito della medicina si traduce che professare una medicina degna implica una chiarezza mentale che, stante la complessità della fenomenologia, prescinde dalla legge esatta e dai dogmatismi universitari o fideistici. 


Bibliografia 

1) L. R. Brown “Building a sustainable society”, Norton, New York, 1981 
2) T. S. Kuhn “The structure of scientific revolutions” , Chicago University Press, 1962. 
3) F. Capra “The turning point” Simon-Schuster, New York, 1982. 
4) I. Prigogine, I. Stengers “La nouvelle alliance”, Gallimard, Paris, 1979. 
5) G. Bateson “Steps to an ecological mind” Ballantine, New York, 1972. 
6) H. Maturana “Autocoscienza e realtà” Cortina, Milano, 1993 
7) A. Revonsuo, M. Kamppinen “Consciousness in philosophy and cognitive neuroscience”,     Erlbaum, Hillsdale, New Jersey, 1994.
8) E. Schrödinger “What is the life?” Cambridge University Press, 1944. 
9) H. Maturana, F. Varela “Autopoiesis and cognition” Reidel, Dordrecht, 1980. 
10) F. Capra “The web of life”, Doubleday-Anchor Book, New York, 1996; “La scienza della vita”, Rizzoli, Milano 2002. 
11) I. Prigogine, P. Glasdorff “Thermodynamic theory of structure, stability and fluctuations” Wiley, New York, 1971. 
12) N. Jerne Ann. Inst. Pasteur Immun. 125C, 435, 1974. 
13) F. Varela, A.Coutinho Immun. Today, 12, 159, 1991. 
14) V. Calenbuhr, H. Bersini, J. Stewart, F. Varela J. Theor. Biol., 177, 199, 1995.
15) S. Itaya, T. Uezu Progr. Theor. Phys. 104, 903, 2000.


Autore: Andrea Dei, Professore di Chimica Generale, Dipartimento di Chimica – Università di Firenze. Email: andrea.dei@unifi.it

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